No, no. La questione di cui si parla qui non riguarda la solita diatriba tra il self e le case editrici. E nemmeno si vuole parlare di major o di case editrici minori.
Il fatto è che gran parte degli aspiranti scrittori desidera pubblicare. Certo, se arrivasse un contratto da favola nessuno ci sputerebbe sopra, ma anche il vezzo di vedere il proprio nome nel catalogo di una casa editrice minore ci attira più o meno tutti (salvo eccellenti eccezioni). Perché?
la pubblicazione come riconoscimento sociale
Per chi ha come passione la scrittura non ci sono molti mezzi per essere riconosciuti socialmente attraverso la propria arte.
Voglio dire, nella folla di aspiranti e auto-celebranti scrittori,che come sappiamo aumentano di giorno in giorno, chi stabilisce chi abbia veramente valore?
In un Paese in cui tutto ciò che ha rilevanza culturale non è visto come remunerativo e quindi è considerato pressoché inutile, non è rimasta che la pubblicazione come unico mezzo per affermare la propria bravura.
Chi ha il merito di pubblicare con una casa editrice, piccola o grande che sia, (tralasciamo chi si affida all’EAP che è il marchio del demonio sulla pelle di qualsiasi esordiente) potrà vantarsi di aver superato una selezione, chi si affida al self sarà direttamente sottoposto al giudizio del mercato non meno che a quello delle stelline di Amazon.
Insomma, in un caso o nell’altro, sarà stato sottoposto ad un metro di giudizio, non certo univoco ma comunque indicativo.
Chi scrive ha davvero necessità di un riconoscimento sociale?
Se chi scrive non ha intenzione di trasformare la propria passione in lavoro, forse un riconoscimento sociale non è così indispensabile.
È anche vero, però, che se narrare è comunicare, difficilmente si può prescindere dal pubblico e, senza pubblicazione, diventa arduo raggiungere il pubblico.
Che cosa significa pubblicare?
Beh, senza scomodare Wikipedia, penso di poter dire che pubblicare significa semplicemente rendere pubblico. Quindi permettere al vasto mondo di entrare in contatto con ciò che scriviamo.
Io stessa, sebbene in questo caso non si tratti di romanzi, pubblico qui su questo blog due post a settimana: li rendo disponibili a chiunque sul web abbia intenzione di leggerli.
Quindi, per quanto io non sia una fanatica della pubblicazione (ho sempre detto- e ne sono ancora convinta- che preferisco non pubblicare niente piuttosto che pubblicare qualcosa che non sia di valore), in realtà mi contraddico con il mio blog. Desidero che ciò che scrivo sia di pubblico dominio.
essere influenti è figo
Da una parte il motivo è abbastanza evidente: essere popolari, conosciuti o, meglio ancora, influenti è figo. L’influencer presto sarà una di quei mestieri che non sai bene che cosa siano, ma che vorresti fare da grande. (E qui mi viene in mente in periodo in cui noi bambine volevamo fare le tenniste per via del cartone animato, già fumetto, Jenny La Tennista).
L’opinione pubblica non fa che bombardarci con messaggi che ci comunicano che essere al centro dell’attenzione, spiccare tra la folla dei mediocri sia ancora più figo. Ma siamo proprio sicuri che sia così?
che cosa ci dà maggior soddisfazione quanto scriviamo?
Pensiamo un attimo a che cosa ci dà davvero soddisfazione quando scriviamo:
- Scrivere. La settimana scorsa, quando parlavamo dei motivi per cui scriviamo, l’abbiamo detto a chiare lettere. Qualunque sia il motivo per cui scriviamo, è l’atto stesso di scrivere (perché consolatorio, perché liberatorio, perché affermante di noi stessi etc etc.) a darci la prima soddisfazione;
- Il superamento degli ostacoli nel nostro percorso. Scrivere è anche un modo per affermare la nostra autostima. Riconoscere in sé stessi la capacità di superare la fatica e la difficoltà connesse alla stesura di un romanzo non fa che potenziarla;
- Il portare a termine il nostro compito: terminare il nostro romanzo. E’ indubbiamente il raggiungimento del primo traguardo. Siamo arrivati in fondo. Dopo tanta fatica, non vale forse la pena di stappare una bottiglia di quello buono?
- Il parere dei nostri primi lettori (i cosiddetti beta). D’accordo qualcuno sostiene che se non ci massacrano è perché non stanno a fare un buon lavoro. Ma se dopo il pat pat sulla spalla ci aggiungono anche un apprezzamento, diventiamo come il mio gatto quando gli spazzolo il pelo: un insieme indefinibile di fusa e godimento.
che cosa rappresenta la pubblicazione?
Come ho detto prima un’affermazione sociale, ma anche altri piccoli elementi forse più banali ma non meno graditi:
- La realizzazione di un libro su carta stampata. Perché sì, è ovvio, vederlo nascere concretamente con tanto di titolo e copertina, poterlo toccare e sfogliare è tutta un’altra cosa che tenerlo su file nel pc;
- La possibilità di regalarlo, rileggerlo, tenerlo nella libreria. Insomma goderne come oggetto oltre che come frutto del nostro intelletto;
- La possibilità di presentarlo, pubblicizzarlo, parlarne. Non solo in quanto affermazione di sé, ma in quanto terreno di discussione delle proprie idee;
- La possibilità di ricevere un feedback su scala più ampia. Non solo il parere di beta reader, editor, casa editrice, ma quello del pubblico. Che poi è quello che conta.
Tuttavia potremmo anche arrivare a pensare che la pubblicazione sia semplicemente la ripetizione su larga scala di un fenomeno altrimenti ridotto in quanto privato. Voglio dire, assume forse più valore il fatto che un’opera venga letta, commentata, apprezzata e criticata da centinaia di persone invece che da sole quattro o cinque probabilmente più competenti della massa?
E per voi, che cosa rappresenta la pubblicazione? Davvero la desiderate tanto?
39 Comments
Boh, mi verrebbe una risposta antropologica, ma forse va un po’ troppo oltre 😛
Ah ma a me la risposta antropologica interessa assai! 🙂
mhhh….
io sì, lo desidero e quindi lo prendo, non come mio sposo, ma come mio sogno da portare per mano in pubblico.
Pubblicare è la concretizzazione di un cammino, con annessi e connessi di flop, successo e puoi fare di meglio, ma senza pubblicazione non si potrà mai capire se scrivere libri, romanzi, racconti, articoli fa per noi.
Tenere in un cassetto è come tenere chiusi in testa i propri sillogismi. Serve a creare illusioni e nessuna conferma.
Pubblicare è un po’ la prova del nove, solo se siamo pronti la si riesce ad affrontare come prova formativa. Nel bene e nel male.
Ok, ma perché la pubblicazione è concretizzazione di un cammino? Non è già l’averlo scritto?
Per me l’alternativa non è tra il pubblicare e il tenere il romanzo in un cassetto. Semmai tra farlo leggere privatamente a poche persone e il renderlo pubblico. Quello che mi chiedo è: il renderlo pubblico non è la semplice ripetizione di un atto identico, quindi puramente un moltiplicatore? Allora è la quantità a darci soddisfazione anziché la qualità?
No, per me non è assolutamente una ripetizione. Nel momento che scrivi qualche cosa la investi di significato, e veicolare il messaggio attraverso la pubblicazione e la vendita è l’unico modo per farla uscire dal proprio giardino. Se urli in televisione è sicuro che ti sentiranno più persone rispetto ai vicini di casa. Insomma è un’amplificazione enorme del proprio messaggio. E la cosa è molto galvanizzante.
Chi sono le «eccellenti eccezioni»?
Secondo me il discorso è molto più semplice. A un certo punto si comincia a scrivere per essere letti – altrimenti dedicarci tanto tempo privandolo ad altre cose non avrebbe senso – e il riscontro del lettore è importante: se è buono inorgoglisce, se è negativo deprime. Dopo un po’ non basta più il riscontro della cerchia di famigliari o di amici, e nemmeno quella dei follower del proprio blog. Si vuole dimostrare a se stessi che il tempo speso è stato speso bene. Quindi si finisce per tentare la strada della pubblicazione, in tutte le sue forme. Il denaro che si riceve in cambio, se lo si riceve, in qualche modo notifica il valore del libro (e quindi dell’autore).
La vecchia generazione invece non la pensava in questo modo. Per loro scrivere libri era un modo per imbattersi in anime affini. I loro libri vendevano poco, ma non era importante vendere. Quello che era importante è che venissero letti dalle persone giuste, persone che avessero quella stessa sensibilità, quello stesso immaginario, che si riconoscessero in quel mondo descritto e narrato. La mercificazione odierna è la parte bassa della letteratura.
Strano che sia tu a chiedermi delle eccellenti eccezioni. Potevo dire solo eccezioni, ma mi piaceva molto l’allitterazione. 😛
Per il resto sono sostanzialmente d’accordo con te.
Mi chiedo però se il fatto che la passata generazione avesse un modo diverso di intendere la scrittura, e la relativa pubblicazione, fosse il frutto di una maggiore consapevolezza di sé o di una diversa cultura o di chissà che cos’altro.
Mah… forse era un mondo semplicemente diverso. È cambiato tanto, sai, anche solo negli ultimi venti-trent’anni.
Sì, certo. Abbiamo anche modelli molto diversi. E questo influisce. Ma proprio noi che, come aspiranti scrittori, abbiamo l’ambizione di capire il mondo, non siamo noi stessi prigionieri della nostra stessa trappola?
Lo siamo, e forse l’ostacolo più grosso è proprio questo. Ma ne riparleremo. E’ da un po’ che stavo pensando di scriverci un post.
E noi lo leggeremo con interesse, come sempre. 🙂
Naturalmente io mi rivedo più in questa immagine romantica (e polverosa). Credevo fosse scontato dirlo…
Le eccellenti eccezioni. 😛
Mi riconosco in quello che dice Salvatore, anche nella sua conclusione romantica. Ho pubblicato all’età di 47 anni dopo un vero e proprio massacro psicologico di mia moglie che era stufa di vedere per anni manoscritti per casa mai proposti ad alcuno. Uuuh non avete idea dell’imbarazzo quando ho spedito le prime cose. Mamma mia, se ci penso… però ho fatto bene a darle ascolto, mi sono tolto un peso.
Salve.
Io penso che, in base anche al proprio tipo di scrittura, e quindi al tipo di presa che il nostro linguaggio potrebbe avere o meno sul mercato, si debba scegliere se l’obiettivo sia legato davvero ai numeri, alla quantificazione di un certo riscontro, (numeri che di certo non dispiacciono, ci mancherebbe!) o invece alle anime. L’ideale sarebbero tantissime anime, non tantissimi numeri.
Un lettore solo che è in ascolto profondo, in certi casi potrebbe valerne mille. Credo che un appagamento importante sia concretizzare un riscontro più o meno mirato con un mondo, anche molto piccolo, una sorta di microcosmo, che però sia all’ascolto a una certa profondità e quindi alla ricerca di un certo suono del nostro scrivere che ha riconosciuto vicino, non tanto alle cose che già ama o che già conosce, ma a quelle che non sapeva di amare prima. È questa la cosa più difficile. Questo suono o voce nuova e insieme familiare, che in qualche modo dovrebbe rappresentarci. Un incontro sintonizzato sulla frequenza espressiva più interna messa in atto dall’autore, avrà tutto un altro sapore, perché è come essere letti oltre e sotto le righe, e non solo tra e sulle righe e credo che nella scrittura conti moltissimo il taciuto, il dato nascosto. Lanciare un proprio scritto in un’orbita con la speranza di scalare delle vette, potrebbe diventare un’occupazione molto frustrante, ecco perché sono fermamente convinto che ogni scrittura, ogni apparato di un’opera di creazione, avrà una sua storia personale e quindi una sua destinazione specifica, dove non sempre il suo valore potrà essere quantificato dai numeri, ma dallo studio sensibile di quella sintonia, di quell’incontro e patto di alleanza che può avvenire tra chi scrive e tra un lettore nuovo, che in certi casi può spalancare davvero un mondo, e valere firmamenti di stelline distratte o legate a fattori che forse lo stesso scrittore stesso ignora nel suo percorso e nella sua ricerca espressiva. In soldoni: si può piacere o essere amati da una moltitudine per cose e componenti del nostro progetto che forse non sono così prioritari e che non ci interessano quanto altri. O viceversa, si può essere riconosciuti in un punto cruciale e profondo del nostro intento, da una sola persona o da poche, e aver capito che in quel caso si è andati molto più lontani. Ma questi elementi non sono sempre così chiari e sono spesso attraversati da mille sfumature. Al momento del mio percorso io la vedo così.
Un saluto
Bene, Luigi. Mi fa piacere constatare che hai capito esattamente ciò che intendevo, e lo dici anche molto meglio di me.
L’ideale sarebbe il poter pensare che la pubblicazione garantisse di raggiungere anime (tante o poche, non importa) lontane, altrimenti irraggiungibili. Ecco allora che avrebbe senso l’aver tolto il proprio romanzo da una condizione privata per renderla, appunto, pubblica.
Ciao, Silvia,
ti ringrazio, ma non credo di averlo detto meglio di te. È stato il tuo spunto a stimolarmi.
Concordo con la tua visione, naturalmente.
buona serata
Voler pubblicare un libro è qualcosa di veramente strano.
Napoleone nelle sue memorie dice che avrebbe rinunciato volentieri a tutte le sue glorie militari se solo avesse avuto il talento di un grande scrittore.
Cos’è scrivere e pubblicare un libro? Appunto.
C’è in giro gente, e ne conosco, che non ha mai letto un libro in vita sua, però ha la voglia di scrivere e pubblicare il suo.
Ecco, gli editori sono spesso intasati (e anche il self publishing) da scrittori di questo tipo.
Molti scrittori sognano il successo letterario. Un Nobel, un Pulitzer, uno Strega, oh beh, se proprio non c’è altro ci si accontenta del premio Rocco pastrocchio di Montecalagno a mare.
I politici hanno la voglia matta di pubblicare un libro, quasi fosse l’esigenza di imprimere una necessaria identità.
Credo che tutto derivi dal nostro inconscio.
Da quando poco più che scimmie ci sedevamo intorno al fuoco e ci raccontavamo storie. Quelle storie, i fatti accaduti ad altri, che erano esperienze di vita necessarie per sopravvivere il giorno dopo. E poi l’umanità scoperta la scrittura, scoperta la possibilità di lascare parole impresse oltre la singola vita, ci ha ubriacato di immortalità.
In fondo questo a livello inconscio rappresenta il libro. Quando leggiamo di Virgilio e Dante, quando rivanghiamo Manzoni e Hemingway, quando il nostro inconscio riflette alla polvere corporale di quei nomi e alla materialità palpabile di quel che hanno scritto, da questo, anche da questo, scatta la voglia di imprimere un tratto per quanto fugace e inutile, di testimonianza di esistenza.
P.s. Lo so, in questi giorni la pressione dell’esistenza mi spinge a tacere, o a esplodere in una bolla di fulgore esistenzialista. 😛
Il tuo fulgore esistenzialista mi piace assai.
Per quanto riguarda la prima parte del tuo commento, mi viene da dire che in effetti la pubblicazione può essere considerata un mero status symbol, nel momento in cui chi pubblica in realtà non pare essere così amante della lettura, tanto più se non legge.
Il perché lo dici nella seconda parte del tuo commento: il libro rappresenta una forma di via per l’immortalità. Se pubblichi, sarai ricordato.
Però anche in questo caso mi viene da chiedere: non basta scrivere per fermare la memoria? E’ diverso essere ricordato da 2/3 persone anziché da 1000?
Ciascuno di noi nel proprio inconscio crede d’essere importante. Chi si azzarda a scrivere ha la palese concezione che prima o poi sarà un grande scrittore. Da qui la depressione quando si scopre d’aver fallito. Da qui la rabbia di tanti scrittori che non sono arrivati dove avrebbero desiderato e se la prendono con Volo, Moccia e le Sfumature, come se questi fossero i responsabili di quel fallimento.
Scrivere, pubblicare, avere successo a prima vista è una debolezza umana. Ma guardando nel profondo non lo è. Così come la terra ruota attorno al sole, così come la sintesi clorofilliana crea il nutrimento per le piante, così gli uomini sono pregni di sogni e passioni. Assieme all’amore i sogni e la passioni sono il tutto che fa aspirare a qualcosa di più grande.
Principalmente chi scrive vuole essere letto… quindi la pubblicazione è il mezzo per raggiungere il lettore.
A volte, però, mi sono anche chiesta se la voglia di essere pubblicato non sia una forma di ricerca dell’immortalità. Il libro sopravvive al suo autore e attraverso il libro lo scrittore viene ricordato.
Sulla questione dell’immortalità sono perfettamente d’accordo. Anzi, penso che uno dei primi motivi per cui l’uomo scrive è per conservare la memoria. In un primo momento di ciò che scrive, poi per essere egli stesso ricordato.
Tuttavia, come già dicevo a Marco e a Nadia, non credo che la pubblicazione sia indispensabile a questo scopo, né in alternativa al tenere il proprio romanzo nel cassetto.
Ciò che è in vera alternativa è il tenere un rapporto privato con il lettore anziché pubblico. Voglio dire, se faccio leggere il mio romanzo a dieci amici innesco con essi un rapporto privato che tuttavia ben esaudisce la necessità di chi scrive di avere un lettore. Ma questo sembra non bastare.
Se ci pensi bene, per certi versi è lo stesso meccanismo che si innesca nel momento in cui pubblichiamo qualcosa su FB: ha più valore il like di un amico reale o i 1000 di amici virtuali (e probabilmente inconsistenti)? Cerchiamo il numero o la qualità? E per estensione: è più importante essere ricordati da poche persone in sintonia con noi o da migliaia di sconosciuti?
La pubblicazione è un cane che si morde la coda. Si scrive per divertirsi, poi, quando si decide di pubblicare quello che si è scritto, quando si decide di farlo bene, iniziano i dolori di pancia. Io sono un selfpublisher e dico che non mi importa che nessuno leggerà il mio testo, ma in realtà a me dispiace un mondo se pochi lo leggono e pochi capiscono il lavoro che c’è dietro. Non mi importa non è vero, è una bugia che dico a me stesso per evitare che se una copia di un testo non arriva a più di cinque persone io ci resti male, che poi male ci resto lo stesso, ma è come mettere le mani avanti, cosa che non dovrei fare sapendo quanto ci lavoro sopra. Eppure la cosa è molto più semplice. Basta pensare che ogni giorno si pubblicano migliaia di testi, che la gente legge poco, quei pochi che leggono vogliono un testo semplice perché alcuni sondaggi hanno dimostrato che non tutti riescono ad applicarsi troppo a una lettura. Ci sono tanti fattori che frenano la diffusione. Anche il fatto stesso che non hai idea di come proporlo. La pubblicazione è un piccolo dolore che può mutare in gioia, ma è un cane che si morde la coda quando si pensa che si fa tanto per farlo perché non è così, almeno non è così per me, ma, al di là di tutto, poi sono i fatti e l’impatto con la realtà che dovrebbero forse far davvero pensare di non arrivare alla pubblicazione, ma di fermarsi un istante prima. Il divertimento è scrivere, inventare, rivedere. È più che sufficiente, anche se non lo è fino in fondo.
Ciao Giovanni e benvenuto sul mio blog. Ti ringrazio per questo commento di cui apprezzomolto la sincerità. E’ vero: tutti scriviamo (salvo le eccellenti eccezioni di cui sopra) con il desiderio di pubblicare e di essere letti da una moltitudine di persone. Persino io che poi spacco il capello in ventisette con questi dubbi.
Quello che, però, mi chiedo è perché ci resti (ci restiamo, vale per tutti) male se hai “solo” cinque lettori. Se anche fossero 500, non sarebbe una semplice moltiplicazione dello stesso fenomeno?
5 lettori sono davvero troppi pochi per poter dire dopo 3 romanzi e racconti e raccolte varie in ebook che valga la pena fare editing e perderci mesi, mesi e mesi sopra. È avvilente e sconfortante. 500 già sarebbe buono, mi accontento anche di 50, però ho scoperto che se non ci penso riesco lo stesso a scrivere. 🙂
Questione complessa.
Premetto che sul tema degli influencer sto ancora ridendo per le giornaliste di Vogue che hanno detto “Trovatevi un lavoro serio” alle fashion blogger. Quasi con lo stesso cipiglio delle ce tradizionali contro gli scrittori indie…
…ah, ma la cosa di Jenny la tennista non era solo mia allora! Beh, io comunque ho fatto il corso e ancora gioco, quando trovo qualcuno con cui dividere il campo.
Tornando alla pubblicazione.
La soddisfazione per arrivare al termine di un romanzo, della scrittura è diversa dalla soddisfazione del libro pubblicato. Inoltre distinguo due tipi di pubblicazione: no, no, non tra tradizionale e self, ma tra pubblicazione lieve e pubblicazione col botto. La lieve è quella che sì, magari pubblichi anche un un “big” ma rimani comunque un nome tra tanti altri, pure sullo scaffale al supermercato, e qualche critico che tesse le lodi, ma fine lì. Il botto è quando diventi “popolare”, magari anche contro le stesse critiche. Qualcuno con un testo considerato scadente (King un decennio fa), qualcun altro con un testo premiato pure dalla letteratura (Rowling/Galbraith). Ma il riconoscimento è dal basso, al di là delle promozioni del marketing. Nonostante la gente fatichi a leggere, il tuo finisce per leggerlo. Quello è il botto.
Qual è la pubblicazione che vorrei per me?
Quando lo scopro te lo dico 😛
Quando lo scopri, scrivici un post con tanto di documentazione, che ti leggiamo sempre volentieri! 😉
Anche tu Jenny la tennista?? Pensavo fosse una mia riminiscenza isolata dal resto del mondo… 😛
Ma siamo davvero sicuri che chi pubblica sia pure influente? A me pare che siano passati quei tempi, e da un pezzo. Sono le banche e le aziende della Silicon Valley che influenzano, poi magari arruolano lo scrittore per darsi un tono. Chi scrive conta come il 2 di picche.
Io mi autopubblico per capire se quello che scrivo piace agli altri, se sono chiaro, comprensibile. E per tracciare con maggiore nitidezza il mio percorso.
Non so se chi pubblica sia influente. Però certamente la pubblicazione dà una certa autorevolezza a chi la raggiunge (o almeno così si immagina chi la raggiunge).
Tu sei particolarmente modesto anche se potresti benissimo permettermi di esserlo di meno, il che ti fa onore in un mondo di presuntuosi. 🙂
Riconoscimento sociale, sì, è così in fondo ma neanche tanto desidero che chi mi conosce trovi i miei romanzi con facilità addirittura magari al supermercato e dica “oh, mia figlia!” oppure i vecchi compagni di scuola “pensa te la Sandra che era così brava con i temi!” So che il mio valore di persona non passa attraverso questo filtro, ma inutile non riesco a farne a meno.
Tu sei fuori gioco perché hai già stra-pubblicato, mica come noi comuni mortali! 😛
Secondo me pubblicare è importante perché ti aiuta a crescere (intendo a livello di scrittura), finchè ho tenuto i miei scritti nel cassetto non mi ponevo nessun problema di come potevano impattare all’esterno, nel momento in cui ho deciso di pubblicare ho dovuto pormi il problema è da qui la revisione, l editing, il beta reader e il resto. Questo, al di là di quanto il libro possa piacere o meno, ti fa crescere e migliorare. Almeno questa è la mia esperienza personale.
Ecco, Giulia, tu introduci il discorso della crescita e questo mi piace molto come concetto. Pubblicare, inteso come rendere pubblico, per certi versi ti obbliga a puntare ad una maggiore qualità quindi, come dici tu, ad affrontare revisione, editing, etc etc.
Però, proprio a voler insistere nel mio ragionamento, lo si potrebbe fare anche per amore del proprio lavoro e non necessariamente in vista della pubblicazione, no?
Non sono d’accordo sul riconoscimento sociale, per me pubblicare significa semplicemente poter condividere una storia con qualcuno che la legga. Poi come ha detto Giulia, è un modo per crescere, per maturare, attraverso il confronto con i lettori, gli addetti ai lavori e le esperienze.
E’ ovvio che poi tutti vorrebbero anche la fama, ma pubblicare con questo scopo è da folli, soprattutto di questi tempi.
Sono pienamente d’accordo con te, Maria Teresa. Per quanto io non ci sia ancora passata, immagino che la pubblicazione sia un’esperienza che ti forma e, senza dubbio, ti fa crescere. In tal caso sarebbe da intendersi come un punto di partenza per migliorarsi. Invece ho l’impressione che sia interpretata come un punto di arrivo. Da lì, forse, l’equivoco con il desiderio di fama e notorietà.
Direi che la tua analisi è esaustiva, non resta nulla da aggiungere.
Molti la pensano come dici, io personalmente non ho la fregola della pubblicazione ma credo sia legato al fatto che non sono ancora soddisfatta del prodotto. Quando avrò un romanzo di cui sono fiera probabilmente non vedrò l’ora di vederlo fuori dal cassetto.
L’unico particolare su cui non sono d’accordo è Jenny la tennista… io volevo essere Mimì Ayuara che si allenava per la pallavolo con le catene ai polsi fino a farli sanguinare! 😀
Ma certo! Mimi Ayuara! Come ho fatto a dimenticarla? 😛
Secondo me non avere la fregola della pubblicazione è un buon modo di vivere la propria scrittura. Non solo permette di rispettare certi tempi tecnici che non possono essere saltati se si vuole fare un buon lavoro, ma ci fa trascorrere dei bei momenti mentre facciamo proprio ciò che amiamo fare: scrivere.
La pubblicazione per me è la naturale conclusione di un percorso che parte dal desiderio di scrivere per soddisfare un bisogno e arriva alla necessità di volere condividere con gli altri ciò che si è scritto. Prima pensavo che mi bastasse scrivere per stare bene, nel tempo, però, ho capito che sì, scrivere era la mia personale cura contro ogni male, ma anche dimostrare di saperlo fare cominciava a essere importante. E lo dimostri se qualcuno ti riconosce il merito e se qualcuno ti riconosce il merito ti pubblica. La pubblicazione diventa una certificazione (ovviamente a vari livelli).
Capisco che cosa intendi. Arrivare ad una casa editrice corrisponde, come dici tu, a una certificazione che attesta le capacità di uno scrittore.